Clostridium difficile, diarrea e colite da antibiotici, colite pseudomembranosa: facciamo il punto | MEDICITALIA.it

2022-10-27 10:53:50 By : Mr. Rain tan

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Negli ultimi anni si è registrato un aumento della frequenza, oltre che della gravità, delle Infezioni da Clostridium Difficile (ICD o CDI, Clostridium Difficile Infections, o CDAD, Clostridium Difficile Associated Disease) sia in ambiente intra- che extra-ospedaliero, associate ad una elevata probabilità di recidiva dopo il trattamento. Il Clostridium Difficile rappresenta l'agente patogeno principale della “colite da antibiotici”, ma anche di molte infezioni comunitarie, nelle quali i fattori di rischio non sono sempre collegabili all’uso di antibiotici o ad una ospedalizzazione precedente, sicchè le infezioni gastrointestinali legate a questo germe hanno assunto un ruolo di rilievo nel dibattito medico e scientifico; pertanto esse rappresentano, oggi, un'importante entità nosologica, anche in termini di costi, economici e socio-assistenziali

Il Clostridium Difficile fu scoperto nel 1935 (Hall e O’Toole) e denominato, inizialmente, Bacillus Difficilis, in ragione della difficoltà nell’isolarlo e nel farlo crescere nel normale terreno di coltura; questo germe fu considerato non patogeno fino agli anni ’70, quando venne ridenominato Clostridium Difficile. Nel 1978 il CD fu finalmente identificato come causa di diarrea associata a terapia antibiotica (clindamicina), ed agente eziologico della Colite PseudoMembranosa (PMC, PseudoMembranous Colitis).

Si tratta di un batterio, gram-positivo, anaerobio e sporigeno (ovvero capace di sporulare, di generare spore). Le spore sono dotate di una membrana particolarmente resistente, sia alle escursioni termiche che all'attacco chimico dei comuni disinfettanti. Le spore, ingerite (la contaminazione può avvenire per via oro-fecale), sopravvivono alla barriera acida dello stomaco e germinano (germinazione) nel colon.

Questo batterio è un normale componente della flora saprofita intestinale; può essere isolato nell'80% delle feci di bambini e neonati, e nel 3% delle feci di adulti sani. Neonati e bambini sono portatori asintomatici di CD. Il germe è presente anche nell'apparato gastrointestinale (e quindi nelle feci) di molti animali domestici (cani, gatti) e di numerosi altri animali (cavalli, maiali, roditori), oltre che nell’ambiente (suolo, acqua). Recentemente, sono state indagate altre possibili fonti di contaminazione, quali gli alimenti, ma, ad oggi, non esiste un metodo standard che permetta la ricerca di questo germe negli alimenti.

I fattori di virulenza principale del CD sono la tossina A (TcdA), la tossina B (TcdB) e la tossina binaria (CDT). Le tossine hanno azione citotossica sulla mucosa del colon; la tossina B è circa 1000 volte più potente della A. Le tossine, dopo essere penetrate nelle cellule epiteliali intestinali tramite endocitosi, distruggono l’actina del citoscheletro, causando la morte cellulare; esse inducono, inoltre, la produzione di TNF-α e IL‐1.

Esistono diversi ceppi di CD, ma non tutti sono produttori di tossine; pertanto rivestono interesse clinico solo i ceppi che producono l’enterotossina A e/o la citotossina B. Per la tipizzazione di questo batterio esistono vari metodi, il più comunemente utilizzato è la PCR-Ribotyping che ha consentito di individuare numerosi ribotipi, tra cui:

Oggi il 25% delle diarree associate all’uso di antibiotici è causato dal CD, il quale può determinare infezioni del tratto gastro-intestinale, denominate CDI (Clostridium Difficile Infections, ovvero Infezioni da Clostridium Difficile, o CDAD Clostridium Difficile Associated Disease).

La condizione predisponente principale, che permette lo sviluppo delle CDI, è legata alla distruzione della normale flora microbica del colon, a causa dell’assunzione di chemioterapici, antitumorali ed antimicrobici (antibiotici).

Per quanto concerne gli antibiotici, sebbene tutte le classi sarebbero virtualmente da considerare nell’ambito dei fattori predisponenti, in realtà sono considerati tali antibiotici come l’ampicillina, le cefalosporine e la clindamicina, mentre alcune classi (es. cotrimoxazolo) sono raramente all’origine del problema; i fluorochinoloni, invece, vengono indicati come un fattore di rischio predominante.

I soggetti più comunemente colpiti sono:

Le CDI rappresentano una delle infezioni nosocomiali più comuni, ma negli ultimi tempi hanno fatto registrare un esponenziale aumento anche a livello comunitario, al di fuori dell’ambito ospedaliero, perfino in soggetti che non sono stati sottoposti, in precedenza, a terapie antibiotiche.

Le CDI si manifestano nei 4‐10 giorni successivi all’inizio dell'assunzione della terapia antibiotica, ma possono anche insorgere alcune settimane dopo la fine della terapia.

Di norma si manifestano come sindrome diarroica lieve (diarrea acquosa accompagnata o meno da dolori addominali), di carattere benigno, che si arresta terminando la cura antibiotica in corso.

Come molti altri batteri, anche il CD mostra delle resistenze verso degli antibiotici. Alcuni ceppi sono resistenti a tetraciclina, cloramfenicolo o eritromicina, mentre tutti i CD sono sensibili a metronidazolo e vancomicina.

Uno degli aspetti critici delle CDI è la frequenza di recidive, che compaiono in una elevata percentuale di casi nei pazienti ricoverati, seppure trattati correttamente. In genere la recidiva compare entro 4 settimane dal termine della terapia antibiotica.

La Colite PseudoMembranosa (PMC, PseudoMembranous Colitis) è un processo infiammatorio acuto, una colite essudativa in genere causata dal Clostridium Difficile. La PMC raramente può essere causata da altri batteri, ad esempio lo Staphylococcus o germi enterotossigeni come Clostridium perfringens, Campylobacter, Listeria e Salmonella. La PMC, soprattutto negli ultimi anni, sta diventando un problema sanitario emergenziale.

Nel colon l’eccessiva proliferazione batterica del CD può innescare una intensa reazione infiammatoria, con sintomatologia severa (profusa diarrea acquosa, con 10-15 scariche alvine quotidiane, dolori addominali, febbre, perdita di appetito, nausea, disidratazione), determinando l’evoluzione verso una colite senza pseudomembrane, fino a giungere alla grave Colite PseudoMembranosa, con necrosi epiteliale, ulcerazioni della parete intestinale e formazione di pseudomembrane.

Il quadro, talora, evolve fino determinare una colite fulminante, con megacolon tossico e perforazione intestinale (1%-3% dei pazienti), mettendo a rischio la vita stessa del paziente. Queste forme gravi, da alcuni anni, si presentano con aumentata frequenza e possono richiedere un intervento di colectomia ed il ricovero in UTI (Unità di Terapia Intensiva).

Le complicanze gravi (quali disidratazione, ipokaliemia, perforazione intestinale, shock settico), che possono mettere in pericolo la vita del paziente, si presentano con una frequenza stimata intorno all’8%.

La sequenza di eventi che portano allo sviluppo delle patologie da CD sono:

L’infezione si verifica a seguito di trasmissione fecale-orale, per ingestione di spore che sopravvivono nell’ambiente acido dello stomaco e si trasformano nella forma vegetativa nel colon. Attraverso le mani portate alla bocca, dopo il contatto con superfici ambientali contaminate dalle spore, le quali possono sopravvivere per mesi su superfici inerti (ad es. strumentazione sanitaria). Anche i pazienti possono diventare portatori.

La degenza ospedaliera del paziente aumenta il rischio di contaminazione.

Il paziente colonizzato/infetto è la fonte primaria di CD:

Per via diretta o indiretta il CD contamina l’ambiente, che diviene la fonte secondaria di infezione.

Mentre le fonti di contaminazione ed i fattori predisponenti delle infezioni nosocomiali da CD sono ben conosciuti, al contrario, poco si sa sull’origine delle infezioni comunitarie, la cui prevalenza è in aumento.

Le cause dell’incremento di incidenza e di severità delle CDI non sono del tutto chiare e sono tuttora oggetto di analisi. Vengono formulate alcune ipotesi:

Secondo alcuni autori, i casi che si sviluppano in ambito assistenziale extraospedaliero hanno quasi sempre, all’origine, una problematica nosocomiale. Nell’ultimo decennio gli ospedali tendono a dimettere i pazienti a breve distanza dall’intervento chirurgico o dall’impostazione di un trattamento terapeutico; se il paziente sviluppa una CDI poco tempo dopo la dimissione, questa infezione è da considerare di origine ospedaliera.

L’infezione da CD oggi è un problema che riguarda non solo l’ospedale, ma anche tutte le strutture in cui si pratica assistenza sanitaria (es. reparti riabilitativi, lungodegenze, strutture per anziani) e, come già ricordato, la comunità.

La popolazione presente nelle strutture residenziali ha una prevalenza di colonizzazione da CD del 4-20%, superiore a quella che si riscontra negli adulti sani. Inoltre si tratta di soggetti portatori di numerosi fattori di rischio (età, frequente trattamento con antibiotici ed antiacidi, varie comorbilità, etc.).

Le infezioni da CD rivestono un ruolo molto importante nelle infezioni ospedaliere; infatti, sempre più spesso, sono riconosciute causare epidemie nosocomiali. Il clostridio produce delle spore che persistono per anni nell’ambiente, rappresentando per questo una delle contaminazioni più comuni in ambito sanitario.

Il miglior modo per prevenire l’infezione di questo batterio è di evitare l’assunzione di antibiotici, quando non è strettamente necessario.

Agli operatori sanitari si raccomanda di ridurre al minimo la possibile trasmissione tra un paziente e l’altro (che può avvenire attraverso materiale sanitario, superfici contaminate e manipolazioni), attenendosi al rispetto delle regole di asepsi. Le spore sono molto resistenti al calore ed all’alcol. In ambito ospedaliero le mani sono il veicolo principale, ad oggi conosciuto, dell’infezione da CD. E’ importante lavarle in modo accurato, con il sapone, ogni volta che si entra in contatto con un paziente, poiché la sola disinfezione con alcol non è sufficiente per eliminare le spore.

Se possibile, il paziente con CDI dev’essere isolato, ed il personale, medico ed infermieristico, deve indossare camice e guanti, cambiandoli anche frequentemente, quando interagisce con il paziente.

La trasmissione tra paziente e paziente è comune; spesso si riescono ad isolare le spore del batterio anche sulle mani, sui vestiti e sugli stetoscopi usati dal personale sanitario; per questo, oltre alla disinfezione delle mani, è importante evitare l’uso di termometri rettali, come pure la sterilizzazione delle padelle, la decontaminazione di endoscopi o altri strumenti, che possono trasportare spore, tramite disinfettanti sporicidi oppure in autoclave.

La diagnosi di colite pseudomembranosa (PMC) è endoscopica. L’esame endoscopico consente di visualizzare le pseudomembrane in più del 50% dei pazienti.

La sigmoidoscopia flessibile è diagnostica nel 90% dei casi, vista la prevalente localizzazione nel colon sinistro; sono pochi  i casi (10%) in cui si rende necessario l'effettuazione di una pancolonscopia. Nei casi lievi, le pseudomembrane possono non essere presenti, la diagnosi dovrà essere confermata dai prelievi bioptici. L’aspetto macroscopico tipico della PMC è dato dalla presenza di pseudomembrane (patognomoniche) che si presentano come noduli e placche biancastre o giallastre, formate da fibrina e da globuli bianchi, talvolta più scure, spesso multiple, rilevate, delle dimensioni variabili da 2 a 10 mm, scarsamente aderenti alla mucosa sottostante, che appare a tratti normale ed a tratti sede di erosioni superficiali, o con eritemi puntiformi, e con tendenza a confluire nei casi più avanzati. Le pseudomembrane possono essere rimosse facilmente durante l’endoscopia, rivelando una sottostante mucosa infiammata ed eritematosa. Il distacco delle pseudomembrane può provocare s anguinamento, perchè la pseudomembrana è costituita non solo dalla fibrina, ma anche da lembi necrotici della mucosa, contenente vasi sanguigni. Occorre evitare di eseguire l' endoscopia in pazienti con colite fulminante, a causa del rischio di megacolon e perforazione.

La diagnosi laboratoristica si basa sulla ricerca nelle feci del Clostridium Difficile e/o di suoi antigeni, tossine o acidi nucleici. La ricerca di indici di reazione infiammatoria nelle feci (leucociti, lattoferrina) è spesso positiva, ma non è patognomonica di CDI.

A causa delle limitazioni inerenti a ciascun metodo, sono state proposte numerose combinazioni di test diagnostici di laboratorio.

Alcuni Autori raccomandano pertanto l’impiego di routine di un test di screening ad elevata sensibilità quale la ricerca delle tossine con metodo immunoenzimatico (in alcuni sistemi in combinazione con la ricerca dell’antigene): un eventuale risultato positivo dovrebbe però essere confermato da un test di conferma (TCCA, coltura tossinogenica).

Le strategie di trattamento dei casi accertati di CDI, contemplano:

Qualora questi provvedimenti e/o la semplice sospensione dell'antimicrobico non siano sufficienti, sarà necessario ricorrere alla terapia antibiotica specifica.

1. Nelle forme non severe la terapia antibiotica standard fa riferimento essenzialmente a due principi attivi, metronidazolo e vancomicina, dimostratisi, in più trials clinici, egualmente efficaci.

Il trattamento standard, della durata di 10 giorni, prevede l’uso di metronidazolo orale (efficace ed a basso costo) con posologia di 250 mg ogni 6 ore oppure, in alternativa, di vancomicina orale (efficace, ma ad alto costo) in dosi di 125 mg ogni 6 ore. Nei pazienti affetti da patologia di grado moderato i due farmaci hanno dimostrato un'efficacia simile, con percentuali di successo rispettivamente del 97% e 98%.

2. Nelle forme severe , definite in base ad uno score basato su:

vi sarebbe una superiorità di vancomicina, con percentuali di successo pari al 97% rispetto al 76% ottenuto con metronidazolo (p <0,02). Le infezioni gravi da Clostridium Difficile possono  essere intrattabili in una percentuale che va dal 15% al 26%, e non esiste oggi una terapia codificata ed efficace per trattare questa patologia.

In termini di incidenza di recidive (valutate mediante follow up a 21 giorni dal termine della terapia) i due farmaci sono risultati sovrapponibili, con una incidenza di circa il 15% dei casi.

Analogamente le differenze in termini di tollerabilità non sono state sostanziali.

Nei casi piu severi la vancomicina si e rivelata nettamente più efficace (97% contro il 76% del metronodazolo).

Oggi, quindi, è opinione condivisa che vancomicina debba rappresentare il farmaco di prima scelta, in virtù della sua maggiore efficacia e del minore impatto sulla flora intestinale rispetto a metronidazolo.

Tuttavia va rimarcato che per pazienti con forme particolarmente gravi (forme fulminanti, ileo paralitico o megacolon tossico), in cui sia controindicata o impossibile una terapia orale, metronidazolo endovena alla posologia di 500 mg ogni 6 ore è la terapia di scelta, eventualmente supportata da vancomicina per SNG (sondino nasogastrico) o per clistere.

3. Sebbene le forme particolarmente gravi possano rappresentare una vera e propria emergenza clinica, il problema gestionale più complesso è tuttavia rappresentato dal trattamento delle forme ricorrenti , che possono essere espressione sia di reinfezione da ceppi differenti che di mancata eradicazione dello stipite originario.

Nei casi di recidive plurime, le opzioni terapeutiche dimostratesi più valide sono:

Infectious Diseases Society of America (IDSA) Guidelines "Cohen SH et al. IDSA guidelines 2010"

Non tutti i pazienti con CDI possono essere trattati con successo con la terapia medica e in alcuni casi si deve ricorrere all'intervento chirurgico. Ovviamente nell’ambito del management delle forme gravi, nei rari casi di refrattarietà alla terapia, deve essere preso in considerazione il ricorso alla colectomia.

La colectomia è l'intervento di prima scelta nei casi di coliti fulminanti refrattarie, perforazione dell'intestino, megacolon tossico, in generale nei casi particolarmente severi con mancata risposta alla terapia nelle 48 ore o nel caso di conclamato danno multi-organo. Alcuni studi hanno dimostrato una maggiore probabilità di sopravvivenza se i pazienti vengono sottoposti ad intervento chirurgico prima di sviluppare sepsi.

Nei casi di sepsi e perforazione intestinale, sottoposti a colectomia d'urgenza, la mortalità, nel periodo post-operatorio, raggiunge comunque il 37-57%, soprattutto in caso di ceppi particolarmente virulenti di C. Difficile.

PMC, PseudoMembranous Colitis CDI, Clostridium Difficile Infections CDAD, Clostridium Difficile Associated Disease CDT, Clostridium Difficile Toxin PCR, Polymerase Chain Reaction TcdA, Toxin Clostridium difficile A TcdB, Toxin Clostridium difficile B FMT, Fecal Microbiota Transplantation HPI, Human Probiotic Infusion ARGF, Autologous Restoration of Gastrointestinal Flora IVIG, IntraVenous Immune Globulin PO, Per Os, per bocca IV, IntraVenoso QD o SID, quaque die o semel in die, una volta al dì BID, bis in die, due volte al dì TID, ter in die, tre volte al dì QID, quater in die, quattro volte al dì QxH, ogni "x" ore al dì

Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1986 presso Università degli Studi di Bari. Iscritto all'Ordine dei Medici di Bari tesserino n° 8211.

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