Congresso "Conoscere e curare il cuore": si parla di inquinamento,

2022-10-27 10:54:14 By : Ms. Anna Zheng

Numerosi e innovativi gli argomenti proposti dalla XXXIX edizione del congresso "Conoscere e Curare il Cuore", organizzata dalla Fondazione "Centro Lotta contro l'Infarto" dal 20 al 23 ottobre 2022 a Fortezza da Basso - Firenze. Sempre di più, il congresso sta scommettendo su temi di interesse per il governo della salute pubblica generale supportati da solide evidenze scientifiche, sulla individuazione di target specifici in relazione a delineate patologie cardiache, sulla personalizzazione delle cure, sulla interconnessione delle strategie terapeutiche. Anche nel 2022 una quota parte dei lavori in aula sarà dedicata ad una lettura critica più stringente relativa alle ultime ricerche scientifiche sul COVID-19.

Numerosi e innovativi gli argomenti proposti dalla XXXIX edizione del congresso “Conoscere e Curare il Cuore”, organizzata dalla Fondazione “Centro Lotta contro l’Infarto” dal 20 al 23 ottobre 2022 a Fortezza da Basso – Firenze. Sempre di più, il congresso sta scommettendo su temi di interesse per il governo della salute pubblica generale supportati da solide evidenze scientifiche, sulla individuazione di target specifici in relazione a delineate patologie cardiache, sulla personalizzazione delle cure, sulla interconnessione delle strategie terapeutiche. Anche nel 2022 una quota parte dei lavori in aula sarà dedicata ad una lettura critica più stringente relativa alle ultime ricerche scientifiche sul COVID-19. Sintetizzati qui, i temi del dibattito di quest’anno. Inquinamento e rischio coronarico: quanto conta?  L’eziopatogenesi degli eventi aterotrombotici è complessa e dipende dai ben noti fattori di rischio modificabili e non modificabili come la predisposizione genetica, lo stile di vita e fattori ambientali; tra questi ultimi, l’inquinamento atmosferico sta richiamando l’attenzione sempre maggiore dei ricercatori. Sebbene ci siano molte evidenze sugli effetti dannosi multisistemici dell’inquinamento atmosferico, un recente documento congiunto della European Respiratory Society (ERS) e della American Thoracic Society (ATS) ha identificato l’apparato cardiovascolare come il suo principale bersaglio. L’inquinamento atmosferico è una miscela complessa di gas (monossido e ossido di azoto, ozono, diossido di zolfo, ammoniaca), goccioline volatili (chinoni e idrocarburi aromatici policiclici) e particolato (particulate matter, PM), una miscela eterogenea comunemente classificata sulla base delle dimensioni delle particelle in particolato grossolano (PM10: diametro aerodinamico <10 µm), fine (PM2.5: diametro aerodinamico <2.5 µm) e ultra-fine (PM0.1: diametro aerodinamico <0.1 µm). Negli ultimi 30 anni, diversi studi hanno inequivocabilmente correlato gli inquinanti atmosferici e soprattutto il particolato, alle malattie cardiovascolari. Il particolato fine è la principale componente dell’inquinamento atmosferico che causa malattie cardiovascolari. Ad oggi, sia l’esposizione a breve termine – ore o giorni – sia l’esposizione a lungo termine – anni o decadi –, si sono dimostrate associate direttamente o indirettamente al rischio di malattia coronarica. Infatti, mentre diversi studi prospettici di coorte hanno evidenziato come l’esposizione prolungata al PM2.5 si associava allo sviluppo di aterosclerosi e di fattori di rischio cardio-metabolici, quali ipertensione arteriosa e diabete mellito, l’esposizione a breve termine al PM2.5 si è dimostrata un trigger per eventi coronarici acuti, soprattutto in soggetti con malattia coronarica preesistente.  In una meta-analisi pubblicata nel 2014, Cesaroni et al. dimostravano che l’esposizione prolungata al particolato era associata ad aumentata incidenza di eventi coronarici nelle 11 coorti incluse nell’European Study of Cohorts for Air Pollution Effects (ESCAPE). Lo studio dimostrava un aumento del 13% di eventi coronarici acuti non fatali per ogni 5 µg/m3 di aumento di esposizione al PM2.5, e un aumento del 12% di eventi coronarici per ogni 10 µg/m3 di aumento del PM10. Anche una più recente meta-analisi pubblicata nel 2021 ha dimostrato come l’esposizione prolungata al PM2.5 e al PM10 si associ a rischio di infarto miocardico. Dati recenti supporterebbero inoltre l’ipotesi che i pazienti con malattia coronarica preesistente siano a maggior rischio di sperimentare eventi coronarici acuti rispetto ai soggetti sani dopo esposizione di breve durata a più alte concentrazioni di inquinanti atmosferici. Alterata funzionalità del microcircolo nelle donne “Una patologia che sembra colpire maggiormente le donne - commenta Francesco Prati, Presidente della Fondazione Centro per la Lotta contro l’Infarto – è l’alterata funzionalità del microcircolo (coronary microvascular dysfunction, CMD).  Questa malattia, infatti, è più frequente nel sesso femminile e non a caso molti studi sono stati condotti nelle donne. Secondo una definizione recentemente accolta dalla comunità internazionale, l’alterata funzionalità del microcircolo richiede segni e/o sintomi di ischemia miocardica in assenza di malattia coronarica ostruttiva significativa. La CMD è pertanto responsabile di ischemia miocardica ed in qualche caso angina, in assenza di stenosi significative del distretto epicardico. In altri casi, la CMD può rappresentare una concausa di angina anche in presenza di malattia coronarica, cardiomiopatie o scompenso cardiaco. E’ lecito chiedersi se il microcircolo possa essere chiamato in causa per la complicanza più temibile della cardiopatia ischemica: l’infarto miocardico. Sono disponibili diverse tecniche, invasive e non, per analizzare lo stato funzionale del microcircolo coronarico. In pazienti con vasi epicardici indenni da lesioni significative, la riserva di flusso coronarico (coronary flow reserve, CFR) fornisce una attendibile stima della funzione del microcircolo. Ulteriore indice invasivo di analisi del microcircolo è l’indice di resistenza microvascolare (index of microvascular resistence, IMR) che sfrutta il principio di termodiluizione e può essere agilmente determinato attraverso una guida intracoronarica di pressione e temperatura. Tra le tecniche non invasive, l’ecocolordoppler transtoracico rappresenta sicuramente la metodica di più immediato utilizzo e basso costo, benché spesso ostacolata dalla intrinseca difficoltà nell’ottenimento di un segnale doppler coronarico ottimale. Lo stato funzionale del microcircolo può essere indagato anche mediante risonanza magnetica cardiaca (RMC), strumento utilizzato in particolare per studiare il fenomeno di no-reflow causato da ostruzione del microcircolo dopo ripristino della pervietà del vaso epicardico responsabile di infarto. L’indagine tramite tomografia ad emissione di positroni (PET), per la sua capacità di quantificare in maniera affidabile il flusso sanguigno per grammo di miocardio, rappresenta attualmente il gold standard tra le metodiche di imaging per lo studio del microcircolo. In molti casi la CMD causa semplicemente ischemia da sforzo o a riposo, in assenza di angina. Analogamente ai soggetti con malattia coronarica epicardica, i pazienti con CMD possono accusare angina pectoris tipica, così come sintomi atipici o dispnea da sforzo. Inoltre – conclude Francesco Prati - l'angina nei soggetti con CMD può comparire anche a riposo, soprattutto in coloro che presentano un meccanismo vasospastico o di aumento del tono dei piccoli vasi. Non c'è dubbio che l’angina dovuta a CMD peggiori la qualità di vita. Secondo le linee guida internazionali, l’impiego di una strategia atta all’individuazione dei soggetti con CMD e dei meccanismi che ne sono responsabili, si traduce in un miglioramento della qualità di vita”. Poligenic risk score ed età Un aiuto in più nella prevenzione cardiovascolare del giovane? E’ ormai ampiamente accettato che età, sesso, fumo, dislipidemia, ipertensione, obesità, mancanza di attività fisica e diabete sono i principali fattori di rischio per lo sviluppo di malattia aterosclerotica cardiovascolare (ASCVD). È anche riconosciuto che questi fattori di rischio interagiscono in modo moltiplicativo per incrementare il rischio vascolare del singolo individuo. Tutte le principali linee guida raccomandano la valutazione del rischio di ASCVD utilizzando gli scores di rischio. Infatti, è stato dimostrato che il loro utilizzo a livello di popolazione aumenta l'accuratezza della previsione di eventi e facilita la scelta delle strategie da adottare in prevenzione primaria. Peraltro, nonostante siano stati validati, la loro abilità predittiva a livello individuale non è eccellente. Inoltre, alcuni parametri hanno un peso sproporzionato: l'età, ad esempio, gioca un ruolo eccessivo nella valutazione del rischio. La necessità di migliorare i modelli tradizionali è evidenziata anche dalla incidenza di casi di infarto che sfuggono alla valutazione del rischio. Infatti, fino al 27% dei casi di infarto miocardico non presenta i fattori di rischio utilizzati nei classici modelli predittivi. Per la maggior parte della popolazione, il rischio ereditario è dovuto all'impatto cumulativo di molte comuni varianti genetiche, note come polimorfismi di un singolo nucleotide (SNPs), ognuna delle quali ha un modesto effetto sul rischio perché non è in grado di determinare una alterazione del gene. Tuttavia, quando queste varianti si sommano tra di loro determinano un significativo aumento del rischio genetico di sviluppare un particolare fenotipo, configurandone così il suo “rischio poligenico”. In questa prospettiva, la previsione di un rischio significativo richiede allora l'esame dell'impatto aggregato di queste varianti multiple, ovvero i punteggi poligenici o i punteggi di rischio poligenico, che consentono questa complessa valutazione. Studi su larga scala effettuati negli ultimi anni hanno permesso lo sviluppo di punteggi poligenici basati su polimorfismi, chiamati comunemente in lingua inglese Poligenic Risk Scores “(PRSs). Questo punteggio diventa allora uno strumento di predizione del rischio, a prescindere dall’età, troppo spesso considerata una variabile dal peso eccessivo nella valutazione del rischio nei modelli tradizionali, e quindi un aiuto in più nella prevenzione cardiovascolare del giovane perché basato su parametri genetici. Il nostro patrimonio genetico, infatti, è sostanzialmente stabile dalla nascita e determina un “rischio di base” sul quale agiscono influenze esterne. Le informazioni genetiche hanno quindi il potenziale per essere un precoce predittore di rischio. Il PRS allora fornisce una gamma più ampia di rischi probabilistici, simile ad altri biomarcatori come il colesterolo e la pressione arteriosa. Non solo scienza, tecnica e farmaci, ma anche stili di vita.  Bere il vino con moderazione fa bene oppure no? Il dibattito sugli effetti di salute di dosi “moderate” del vino, e più in generale di alcool, è andato via via radicalizzandosi negli ultimi anni. Una parte della comunità scientifica, e la quasi totalità delle istituzioni nazionali ed internazionali che si occupano dell’argomento, ha infatti scelto di focalizzare la propria attenzione, e quindi quella dei medici e del pubblico, soprattutto sugli effetti dell’alcool sul rischio di tumori, concludendo che poiché qualunque consumo alcoolico è associato ad un aumento del rischio di queste patologie, solo il consumo zero può essere considerato scevro da rischi; l’altra parte della comunità scientifica ritiene invece necessario contestualizzare queste evidenze, peraltro ben note, negli effetti complessivi dell’alcool sulla salute del consumatore, e tenendo quindi conto dell’impatto del consumo moderato di alcool sul rischio di eventi cardiovascolari e sulla mortalità per tutte le cause. Dall’analisi della letteratura emerge che, specie se mantenuti entro limiti lievemente più bassi (due drink al giorno per gli uomini ed uno per le donne), tali consumi si associano ad una riduzione del rischio coronarico, minimizzando l’impatto sull’aumento del rischio di tumori, e con un effetto globale favorevole sulla mortalità per tutte le cause, che va considerato il parametro di maggior interesse al proposito. In uno studio recente, il rischio cardiovascolare si riduce progressivamente per consumi crescenti fino a 48-60 g di alcool giorno; per questi livelli di consumo la riduzione è del 50% circa. Meno marcato sembra essere l’effetto protettivo associato al consumo di alcool sul rischio di ictus: gli eventi di natura ischemica sembrerebbero ridotti, ma aumenterebbe il rischio di eventi emorragici. Tra le patologie cardiovascolari l’unica ad aumentare in maniera significativa e dose-correlata, al crescere del consumo di alcool, è la fibrillazione atriale. Sul piano meccanicistico è tuttavia importante osservare che i consumi moderati di alcool si associano a modificazioni di parametri biochimici note per svolgere un effetto antiaterosclerotico. Aumentano per esempio i livelli della colesterolemia HDL, che rappresenta un fattore protettivo nei confronti dell’aterosclerosi coronarica (anche se oggi tale aumento è considerato in genere non rilevante) e si sviluppa un’azione antinfiammatoria, che si traduce in livelli più bassi della proteina C reattiva e dell’interleuchina IL-6. Si osserva inoltre, in genere, un miglioramento della sensibilità all’insulina, ed una riduzione del rischio di sviluppare la malattia diabetica, che certamente contribuisce al rischio di eventi coronarici. L’alcool è classificato dallo IARC come un agente cancerogeno per l’uomo. Le evidenze scientifiche che sostengono l’effetto dell’alcool stesso sul rischio di tumori sono peraltro della stessa qualità di quelle che sostengono l’effetto protettivo dell’alcool sul rischio coronarico: si tratta infatti di studi di epidemiologia osservazionale, che come abbiamo più volte ricordato non consentono di stabilire nessi di causalità. Con tali limiti, l’associazione tra consumo di alcool e rischio neoplastico risulta ben documentata per i tumori di alcune sedi specifiche (soprattutto le prime vie digestive e respiratorie, ma anche il colon-retto, la mammella femminile). Gli studi pubblicati riguardano in genere consumi non moderati di alcool (oltre i 2-3 drink al giorno per gli uomini, e 1-2 per le donne); alcuni autori considerano tuttavia questa associazione senza “effetto soglia”, e quindi da estendersi anche ai consumi moderati (entro i limiti prima descritti).  Questa posizione è controversa. Una recente metanalisi italiana, per esempio, conclude invece per l’assenza di una chiara relazione al proposito; più in dettaglio si osserverebbe un’associazione positiva tra i consumi moderati e il rischio di melanoma, di cancro della mammella tra le donne e della prostata tra gli uomini, ma anche un’associazione negativa (e quindi teoricamente protettiva) con il rischio di alcuni linfomi, del tumore della vescica e del rene. L’effetto complessivo finale sarebbe nullo. L’aspetto certamente più complesso della relazione tra alcool e tumori è comunque probabilmente quello che riguarda il cancro della mammella femminile. È noto che tale effetto si osserva anche per livelli di consumo molto bassi (attorno a 2-3 drink la settimana); in genere si stima che il 4% dei tumori osservati in questa sede anatomica sia attribuibile all’alcool. Dati relativamente recenti, tuttavia, mostrano che tale effetto non è distribuito omogeneamente nella popolazione, ma ne riflette alcune caratteristiche comportamentali, o di stile di vita, o di natura genetica. Associazione tra cuore e demenza, occhio all’atrio sinistro Le evidenze scientifiche suggeriscono che la fibrillazione atriale possa essere un elemento cruciale nella progressione del deterioramento cognitivo e della demenza. La associazione è spiegata solo in parte dai fattori di rischio condivisi e/o dalla casuale coesistenza di entrambe le patologie con l’avanzare dell’età. Il meccanismo più noto è il deterioramento cognitivo che fa seguito ad uno stroke cardio-embolico, fenomeno descritto nel 33% degli ictus a 5 anni. Tuttavia, il rapporto tra fibrillazione atriale e demenza è molto più complesso e multifattoriale, osservato con elevata frequenza anche nei pazienti senza storia di ictus o TIA cerebrale. Alcune riflessioni suggeriscono come il cardio-embolismo non sia l’unica spiegazione possibile del legame tra aritmie atriali e demenza, sulla base delle seguenti considerazioni: il rapporto temporale tra fibrillazione atriale e ictus ischemico è spesso inesistente ed oggi si pensa che l’atrio di per sé possa essere emboligeno anche in assenza dell’aritmia (cosiddetta cardiomiopatia atriale); per quanto sia teoricamente possibile che la fibrillazione atriale possa essere causa di piccole embolie cerebrali clinicamente silenti, l’aritmia può alterare il flusso cerebrale con meccanismi diversi, segnatamente ipoperfusione per ridotta portata cardiaca o per variazione beat-to-beat del flusso; da ultimo, la fibrillazione atriale può essere un marker e non una causa di danno neurologico, attraverso l’associazione con una sclerosi vascolare e/o una infiammazione sistemica, condizioni che possono tradursi in un danno vascolare cerebrale e in alterazioni progressive dei processi cognitivi. Si può pertanto riassumere che i meccanismi che legano la fibrillazione atriale alla demenza non sono chiari e possono coinvolgere diversi fenomeni, quali micro-infarti cerebrali, ipoperfusione cerebrale, micro-emorragie, infiammazione, oltre che atrofia cerebrale e aterosclerosi sistemica. Esistono stretti rapporti tra l’atrio sinistro e lo sviluppo di demenza. Il danno cerebrale può derivare da meccanismi complessi e per certi versi indefiniti, che coinvolgono la miopatia atriale, il trombo-embolismo cerebrale (silente e non), le alterazioni del flusso cerebrale, l’infiammazione e l’associazione con l’aterosclerosi sistemica o la malattia dei piccoli vasi cerebrali. Per quanto i dati siano spesso incerti e conflittuali, sembrerebbe che la terapia della fibrillazione atriale possa prevenire o rallentare la demenza attraverso tre azioni distinte: inibizione del rimodellamento atriale sinistro; prevenzione del (micro)-embolismo e degli infarti cerebrali silenti (e non); incremento e regolarizzazione del flusso e della perfusione cerebrale. Questi meccanismi non sono mutuamente esclusivi e potrebbero essere variamente operativi nel singolo soggetto, da cui l’esigenza di definire la patogenesi del danno cerebrale, così da personalizzare e ottimizzare la profilassi della demenza. La deficienza di ferro nello scompenso cardiaco: diagnosi e ripercussioni cliniche La carenza di ferro è un reperto ampiamente prevalente nei pazienti con insufficienza cardiaca, osservato mediamente nel 50% dei pazienti ambulatoriali e fino all’80% di quelli acuti, indipendentemente dalla frazione di eiezione e dalla presenza di anemia, configurandosi come predittore indipendente di peggiore capacità funzionale e ridotta sopravvivenza. La definizione di carenza di ferro nello scompenso cardiaco tiene conto dello stato di infiammazione cronica che caratterizza la patologia, riconoscendo alla saturazione di transferrina un ruolo discriminante. Gli studi finora condotti, focalizzati sul paziente con scompenso a frazione di eiezione almeno moderatamente ridotta, hanno mostrato beneficio clinico con la supplementazione endovenosa di carbossimaltosio ferrico in termini di capacità funzionale, qualità di vita e marcatori laboratoristici di malattia ed infiammazione, nonché di possibile riduzione delle riospedalizzazioni, ma non in termini di mortalità. Sulla base di queste evidenze, le linee guida raccomandano tale approccio terapeutico nel paziente scompensato e con carenza di ferro, mentre la ricerca è all’opera per approfondire l’impatto clinico della supplementazione in contesti non ancora esaminati, quali quello dello scompenso a frazione di eiezione preservata.  I fattori di rischio per lo sviluppo di deficit marziale nello scompenso cardiaco includono il sesso femminile, uno stadio di malattia più avanzato. Le cause sottostanti l’associazione tra carenza di ferro ed insufficienza cardiaca possono essere molteplici, spaziando dallo stato di ridotta assunzione ed assorbimento dovuti ad iponutrizione, inappetenza e congestione delle mucose del tratto gastroenterico a quello di alterata distribuzione ed utilizzo secondari ad infiammazione cronica di basso grado, fino alle perdite, soprattutto gastrointestinali, almeno in parte riconducibili all’uso di farmaci antiaggreganti ed anticoagulanti. La carenza marziale in tale contesto è generalmente diagnosticata per livelli di ferritina <100 ng/mL, oppure compresi tra 100 e 299 ng/mL, se la saturazione della transferrina (transferrin saturation, TSAT) è <20%. La deplezione di ferro nel midollo osseo è un reperto molto specifico per deficit marziale e, non essendo influenzato dall'infiammazione, rappresenta il gold standard per la diagnosi definitiva di tale condizione. Pertanto, le conseguenze cliniche legate al deficit di ferro in corso di scompenso cardiaco sono molteplici. Anzitutto, la carenza marziale inficia l’eritropoiesi, favorendo lo sviluppo di anemia. L'anemia è indipendentemente associata ad un aumento della mortalità e delle ospedalizzazioni in pazienti con scompenso cardiaco. Il ridotto apporto di ossigeno ai tessuti nei soggetti anemici innesca alterazioni emodinamiche e neuro-ormonali che aggravano il carico di lavoro miocardico, contribuendo, nel tempo, al rimodellamento ventricolare sinistro. In tale contesto, le numerose comorbidità tipiche di questi pazienti, ivi incluse insufficienza renale cronica e cachessia cardiaca, contribuiscono a precipitare il quadro clinico. Sulla scorta di tali basi epidemiologiche e fisiopatologiche, la correzione della carenza di ferro è diventata un obiettivo importante nella gestione dell'insufficienza cardiaca. Angioplastica. Un mito da sfatare?  Perché l’angioplastica primaria può essere inefficace nonostante la precocità dell’intervento? La rivascolarizzazione coronarica precoce rappresenta una strategia terapeutica di prima scelta in caso di infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI). Nonostante la precoce angioplastica coronarica, tuttavia, in alcuni casi si assiste ad una minore efficacia della rivascolarizzazione, con outcome clinico meno favorevole, sia nel breve che nel lungo termine. Vari elementi, infatti, compartecipano alla prognosi a distanza dopo angioplastica coronarica (percutaneous coronary intervention, PCI) primaria. Tra di essi vi sono fattori di rischio clinico legati a caratteristiche del paziente o co-morbidità, variabili procedurale e differenze di presentazione clinica. Fattori intrinseci al paziente che possono influenzare la prognosi sono l’età, la presenza di insufficienza renale, diabete mellito o vasculopatia poli-distrettuale. D’altro canto, l’efficacia dell’angioplastica dipende anche dalla complessità della procedura e dalle caratteristiche anatomiche della malattia coronarica, nonché dal quadro clinico di presentazione. Diversi fattori clinici sono stati correlati ad un aumentato rischio di eventi avversi nei pazienti con malattia coronarica (CAD). L’età avanzata ed in particolare la fragilità si associano ad una mortalità più elevata. La presenza di diabete mellito, di insufficienza renale cronica o di vasculopatia periferica influenza negativamente la prognosi, in quanto è più frequentemente associata a CAD multivaso o diffusa, nonché ad una più rapida progressione nel tempo della coronaropatia. La presenza di diabete mellito inoltre condiziona una maggiore incidenza di restenosi intrastent (ISR) durante il follow-up, anche dopo l’introduzione degli stent a rilascio di farmaco (DES) di ultima generazione. Anche le condizioni in cui viene eseguita l’angioplastica ed il risultato finale della stessa possono influenzare significativamente l’outcome. In pazienti con STEMI è frequente la presenza di un elevato burden trombotico a livello coronarico. In questo contesto, l’embolizzazione di materiale trombotico nei segmenti coronarici distali può compromettere la riperfusione miocardica, con sviluppo di necrosi nonostante la precocità dell’angioplastica e della ricanalizzazione coronarica. In particolare, nonostante una precoce ricanalizzazione coronarica, in una percentuale variabile di pazienti, compresa tra il 5% ed il 50% a seconda delle casistiche, si assiste ad una mancata ripresa della perfusione coronarica. Tale fenomeno, denominato “no-reflow”, è associato da una peggiore prognosi. Vi è poi una predisposizione individuale al no-reflow verosimilmente mediata da una maggiore suscettibilità al danno microcircolatorio coronarico (favorita ad esempio da comorbidità, come diabete mellito e dislipidemia) e da una iper-attivazione delle piastrine e di mediatori infiammatori. Sarebbe di fondamentale importanza individuare precocemente le ragioni dell’insuccesso dell’angioplastica primaria, in modo da attuare strategie preventive appropriate, ma al momento c’è purtroppo molta strada da percorrere.

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